Torino, una città di quartieri. Una città di diritti.
La città contemporanea, connessa e reticolare, è divenuta con il passare del tempo un luogo di sfida, in cui il globale incontra il locale e in questa prospettiva “glocale”, intrinsecamente politica, manifesta la sua vera natura: quella di un’organizzazione economico-sociale, in cui si intrecciano istituzioni, azioni sociali, vite. In un’ultima istanza, un teatro di democrazia; luogo vissuto e da vivere.
D’altra parte, le insidie della globalizzazione e da ultimo la grave crisi sanitaria che stiamo vivendo costringono una città come Torino a confrontarsi con fenomeni quali la smaterializzazione del lavoro, dei servizi, della vita stessa e a misurarsi con trasformazioni molto profonde del suo tessuto urbano, che obbligano a uno sforzo creativo di ripensamento della società. Uno sforzo difficile, ma essenziale per chi crede ancora che la città possa rappresentare un potente simbolo estetico di unità collettiva.
La “periferia” è probabilmente il luogo in cui quanto detto si rende più evidente. Il luogo in cui, negli ultimi anni, quella destrutturazione si è fatta più tragica e dove l’azione di rigenerazione del tessuto sociale, ma ancora prima delle prospettive delle vite umane, si fa più urgente.
Non si deve dimenticare, infatti, che negli anni il termine “periferia” ha ampliato il suo significato, essendo usato sempre più per descrivere contesti di vita, piuttosto che per indicare un luogo geografico. La periferia è così divenuta sinonimo per parlare di quella condizione di povertà, emarginazione, isolamento in cui versano molte persone, ovunque.
Questo ampliamento di significato del termine periferia è essenziale per comprendere la geografia di un panorama urbano sempre più complesso e sempre meno propenso a lasciarsi ingabbiare in schemi sociali predefiniti.
Si tratta allora di muoversi su due piani: da una parte rintracciare e contrastare quelle difficoltà personali e familiari che denotano isolamento sociale, una periferia per così dire umana che può manifestarsi ovunque; dall’altra agire profondamente su quei territori della città in cui le condizioni di disagio si accatastano così tanto l’una sull’altra da pietrificarsi, facendosi luogo e generando nel tempo una sensazione di immodificabilità.
In effetti, se è vero che la periferia è una condizione, bisognerà ammettere che ci sono spazi urbani per così dire “ad alta intensità periferica”, dove l’inaccessibilità, la contrapposizione sociale, la ghettizzazione, la paura rappresentano l’orizzonte quotidiano di una comunità che non sempre sembra appartenere alla città.
Il tema delle periferie è un tema sempre presente nell’agenda elettorale locale. Ma da tempo le politiche promesse non si mostrano all’altezza delle aspettative e dello stato di necessità in cui versano alcuni quartieri. Questo perché la prospettiva con la quale si guarda alla città è una prospettiva limitata e soprattutto eccessivamente schiacciata su una visione urbana più che umana.
Per parlare di periferie bisogna, infatti, parlare di territorio, ma bisogna farlo guardando oltre la sua dimensione spaziale e oltre la sua dimensione sociale, come una questione di diritto e di diritti. Il discorso sulle periferie, ma più in generale sui quartieri della nostra Torino, si fa allora discorso sulla lotta alle disuguaglianze, sull’opportunità di convivenza (e non di mera coesistenza), sull’esercizio delle libertà fondamentali.
Partendo dal presupposto che non vi è periferia che possa essere considerata indefinitivamente tale o che lo sia di per sé, quello che appare come un luogo dell’assenza (di risorse, di politiche, di opportunità, di ricchezza…), attraverso il diritto può trasformarsi in un luogo di rigenerazione urbana, per contribuire a disegnare l’identità degli spazi in cui viviamo, al fine di dare risposta a quel desiderio di appartenere a un luogo, di essere di quel luogo.
Se è vero che lo spazio è fattore della storia almeno quanto il tempo, allora, nell’amministrazione delle città, bisognerà prendere coscienza del fatto che il diritto non può limitarsi a registrare questo percorso storico, ma è chiamato a orientarlo, plasmando lo spazio. E per farlo agisce attraverso la politica. Anche quella locale.
Il diritto, infatti, non è mai di per sé “tecnico”. Nel suo farsi politica esso si fa portatore di un punto di vista che è caratterizzato da valori assunti nell’interesse di tutti.
Ragionare di diritto nelle periferie significa, dunque, parlare di diritto nei quartieri, sul territorio, nella città.Significa ridare respiro al ruolo della politica locale.
Ragionare di diritti nello spazio urbano diviene occasione per la pubblica amministrazione di riappropriarsi della sua funzione più importante: garantire ai cittadini condizioni di vita degne, emancipazione dal bisogno, sviluppo personale, benessere individuale e collettivo. Attraverso la politica locale, il diritto restituisce alla città il suo valore d’uso, la sua capacità di valorizzare lo spazio pubblico, le occasioni di partecipazione ai beni collettivi, la sua idea estetica.
Senza una pubblica amministrazione efficiente, efficace, lungimirante e guidata da progettualità anche la prospettiva costituzionale della difesa della dignità umana e del pluralismo divengono lettera morta, perché senza buon governo non c’è godimento di libertà.
In quest’ottica la dimensione comunale, sul piano del diritto pubblico, finisce per divenire motore per riattivare i meccanismi stanchi della democrazia rappresentativa e per provare a ridare protagonismo alla politica che attraverso i corpi intermedi, ossia le famiglie, le associazioni, i circoli, le comunità religiose, le realtà culturali, ma anche i partiti, riafferma il proprio ruolo di agente mediatore, catalizzatore e riduttore delle paure, moltiplicatore di fiducia, connettore di potenzialità.
Dove gli è di competenza l’amministrazione comunale agirà al fine di fornire servizi e tutelare diritti; dove la sua competenza non arriva, forte della sua autorevolezza (che gli deriva dalla conoscenza del tessuto urbano e dall’aver immaginato un piano strategico di sviluppo e inclusione condiviso), sarà in grado di farsi garante dei propri cittadini e delle loro necessità, davanti allo Stato e alla Regione.
Ciò che andiamo dicendo circa la necessità di un cambio di prospettiva nell’intendere la funzione dell’amministrazione comunale come occasione di disponibilità concreta dei diritti mostra chiaramente la sua portata in relazione ad alcuni ambiti specifici che hanno stretta attinenza con le periferie.
Ci si riferisce, per esempio, al tema della sicurezza, troppo spesso vissuto come controllo del territorio, contenimento del conflitto anziché, in un’ottica di pubblica amministrazione abilitante al godimento dei diritti, come gestione delle tensioni, comprensione, valorizzazione, neutralizzazione delle ingiustizie e soprattutto conoscenza dell’altro e delle sue potenzialità come unica via al consolidamento della fiducia, base dei legami comunitari.
In questo senso la sicurezza, intesa in termini di sforzo alla legalità, non è più percepita solo come funzione che compete all’amministrazione svolgere, ma come bene pubblico che ha a che fare con il concetto di vivibilità, di decoro, di cultura, di rispetto, ma anche di legalità e prossimità
Ugualmente le riflessioni svolte possono gettare nuova luce sui nessi esistenti tra pianificazione urbana e tutela dei diritti, chiamando in causa fattori troppo spesso dimenticati nel discorso pubblico, quali quello di funzione sociale della proprietà e perequazione solidale.
Una politica locale che opera come volano nella garanzia dei diritti fondamentali non può che generare un diritto capace di contenere e se necessario contrapporsi a una dimensione privata fatta di pratiche finanziarie speculative, di servizi meramente on demand, di visioni classiste della città, in cui il possedere ha valore solo in ottica di scambio e non come opportunità di sviluppo collettivo e di redistribuzione.
La questione abitativa in una città, cuore di molte azioni a livello urbano, rimanda a una progettualità che non attiene solo al piano di sviluppo edilizio, ma anche alla visione di società che si intende perseguire. Solo così la trasformazione delle nostre città diventa occasione di rigenerazione sociale, piuttosto che di sventramento ed esclusione. Per ricucire il tessuto sociale bisogna ricucire il tessuto urbano. Per farlo è necessario attivare politiche di rifunzionalizzazione dell’esistente attraverso la valorizzazione e il recupero del dismesso, così come avviare nuove azioni per garantire il diritto alla casa, base da cui partire per contrastare il disagio sociale attraverso la protezione della dignità umana.
Si tratta in primo luogo di intervenire sulla pubblica amministrazione con un’azione di semplificazione delle procedure di recupero e variazione della destinazione d’uso degli edifici; con politiche di incentivazione che possano mettere in circolo l’impegno pubblico e l’azione dei privati. Trasformare i segni dell’abbandono in presenza. Le occasioni perdute in ricchezza per la collettività. Bonificando il territorio si rivitalizza la società.
Ma si tratta anche di occuparsi dei cittadini più svantaggiati, non attraverso politiche meramente assistenziali, ma con sistematicità, ponendo le basi per garantire condizioni di vita degne che permettano il riscatto sociale, pensando ad esempio a programmi di edilizia sociale, progetti di cohousing, politiche di affitto a canone agevolato, che offrono risposte alle richieste abitative, rimettendo sul mercato un patrimonio immobiliare sommerso e inutilizzato, grazie alla funzione di garanzia che il Comune può svolgere.
Il contesto metropolitano offre, dunque, l’occasione di nuove forme per una nuova urban collaborative governance.
Non vi è alcun dubbio, infatti, che un’idea così sfidante di città non può che realizzarsi attraverso la predisposizione di una rete, di risorse, di talenti, di passioni, di competenze, alla ricerca di inedite costruzioni del giuridico a servizio dei cittadini e delle cittadine.
L’opportunità di cambiare si presenta ora. E le prospettive per farlo ci appaiono chiare.
Innanzitutto partendo dal ripensamento di Torino in chiave policentrica, restituendo vitalità alle periferie animate da un capitale umano che non può e non deve essere disperso; permettendo stili di vita caratterizzati dalla prossimità; fomentando sentimenti di appartenenza ai luoghi e alla comunità. Tutto ciò lo si fa ristrutturando il sistema del trasporto pubblico, sostenendo l’associazionismo, favorendo iniziative culturali sul territorio, sostenendo la crescita del piccolo commercio e dell’artigianato e contenendo il diffondersi delle grandi strutture commerciali che soffocano l’emergere delle identità locali. Ma soprattutto educando al “bello”, a un nuovo senso estetico-funzionale della città, come antidoto al degrado urbano che si fa degrado sociale e come presupposto per diffondere la pratica del prendersi cura della cosa pubblica.
Abbiamo in mente una Torino che si snoda in un reticolo di piazze, tutte “equivicine” alla sua Amministrazione.
Una città smart del resto non può che essere una città che riparte dalla valorizzazione delle proprie periferie a cui guardare come luogo di opportunità e non solo come problemi da risolvere. Una visione policentrica della città permette un contatto tra pubblica amministrazione e cittadini diversamente non raggiungibile e consente cambiamenti sociali che si fondano su occasioni di riscatto sociale
È l’intelligenza delle persone che la abitano a fare “intelligente” una città. Nell’era delle smart city non dobbiamo infatti dimenticare che affinché le opportunità offerte dalla tecnologia urbana non si riducano a un’altra occasione per creare nuove periferie, è necessario chiedersi a quali domande pretendiamo che le nostre città intelligenti rispondano. A quali esigenze sono chiamate a dare soddisfazione.
Le città intelligenti non sono di per sé giuste. È ancora una volta la politica a renderle giuste, o più giuste; a decidere se quella tecnologia impiegata sarà a servizio di pochi o nell’ottica dell’inclusione di tutti: perché come ricordato non c’è periferia che sia per sempre tale o che lo sia necessariamente di per sé.
E’ necessario un nuovo approccio. E’ necessaria una visione integrata.
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